la Madonna rapita (versione del parroco don E. Bonzi)
“Sulla riva lombarda, rimpetto ad Arona, sorge il villaggio di Angera, dall’antico nome di Angleria o Stazzona, datogli dai Romani che ne furono i fondatori, come ne attestano ancora un arco che forma la porta d’entrata verso Oriente ed alcuni tronchi istoriati di colonne, sulla piazza della Chiesa Prepositurale.
Le sue case, le casupole e qualche palazzo sono allineati tutti in giro su un bel promontorio sporgente sul lago ed alle falde di una roccia squarciata a metà verso tramontana da una cava di sasso color rosa, da cui si trassero dei blocchi enormi che servirono a decorare molti palazzi monumentali della nostra bella Milano.
Ma ogni lavoro fu sospeso ed i minatori disertarono poiché ne pericolava il soprastante Castello dei Borromeo, piccola acropoli in parte diroccata dal tempo che giustificherebbe da sola la pena di un‘escursione ai turisti e villeggianti che volessero visitare le gallerie di quadri, un pozzo misterioso dove si gettavano le vittime dell’epoca feudale e spaziare con lo sguardo di lassù gran tratto del lago, nonché le colline verdeggianti e gli ameni poggi dell‘altra riva piemontese, dove sorge e campeggia sullo sfondo azzurro del cielo, nei giorni sereni, la statua colossale di San Carlo Borromeo.
Verso la fine del 1700, il paesuccio di Ranco che sta a metà collina, lontano poco più di due miglia da Angera, rimontando la riva sinistra del lago, non formava ancora Parrocchia a sè, ed era composto di poche capanne di pescatori e Vignaioli, che per tutto dipendevano da Angera.
Ma l'accrescersi degli abitanti, nonché il rimpatrio di qualche minatore danaroso, ingrandì il luogo tanto da far pensare a quei terrazzani ad emanciparsi e fare da sè. Infatti fu costruita in mattoni e bene imbiancata la casa municipale, più tardi una scuola ed infine una bella chiesuola fabbricata nel centro del paese davanti ad un sagrato fiancheggiato da olmi e frassini...
Quei d‘Angera, specie la gioventù, per naturale gelosia, si divertirono alcun tempo alle spalle dei buoni vicini di Ranco, e non tralasciarono ad ogni incontro di lanciare frizzi e motteggi sulle loro intraprese: sul nuovo municipio senza sindaco, sulla scuola senza maestro, poiché “la vacca ne aveva mangiato i libri”, sulla chiesa senza parroco e senza campane per non spaventare gli storni che vi farebbero il nido, e via di tal passo...
Mai buoni paesani di Ranco, duri e costanti più che il macigno delle loro montagne, e che già in germe nutrivano l’orgoglio dell’indipendenza della loro Parrocchia, non se la diedero per inteso e proseguirono arditi e zelanti nella loro opera di ricostruzione.
La Madonna della Riva è una festa che si celebra in Angera la prima domenica di luglio di ogni anno. In quel giorno la chiesa dedicata alla Madonna e che si trova in principio del vastissimo piazzale con una triplice allea di ippocastani, di fronte al bel porto sul lago, viene sfarzosamente addobbata per le cerimonie religiose.
In tale incontro si tiene pure la fiera annuale dei prodotti agricoli e del bestiame, cosicché vi è un gran concorso da tutte le terre viciniori; ed un albero di cuccagna piantato in mezzo alla piazza a spese del Municipio, nonché altri giochi di concorso, quali triangoli ad equilibrio, trapezi volanti, le corse nei sacchi e degli asini, finiscono per attirare gran folla di curiosi e benestanti.
Le solite baracche di dolciumi, giocattoli e utensili casalinghi, che girano tutte le fiere e i mercati, qualche attendamento di saltimbanchi sulla prateria e finalmente la musica del paese che rallegra di concerti poco avveniristi, sopra un palco tutto parato a banderuole e sandaline, formano, con una luminaria ed un fuoco di artifizio la sera, il compendio della gran festa del villaggio.
Nell’anno in cui si passavano gli avvenimenti più sopra menzionati, quei di Ranco, dopo aver lungamente taciuto e trangugiato amaro per sputar dolce, come si suol dire, pensarono di sbalordire tutti con un colpo ardito ed attirare a se tutto il movimento della festa rivale, sotto diceria di un gran miracolo.
Bisogna sapere che, nella Chiesa della Madonna d’Angera, si conservava gelosamente un magnifico quadro della Vergine Addolorata del celebre Giovanni Battista Salvi detto il Sassoferrato, dal suo paese natio delle Marche.
Come mai di tale quadro ne esista altro originale nella Galleria degli Uffizi di Firenze, io non so ne voglio gettare il pomo della discordia fra i dotti, gli archeologi e gli antiquari sull’autenticità dell’una piuttosto che dell’altra tela; aggiungerò solo questo dettaglio della vita del Sassoferrato, ignorato da tutti.
Quando egli ebbe ultimato gli studi a Roma, dove tanto bene imitò le opere dell’Albano, di Guido, del Barrocci, e specialmente di Raffaello, prima di portarsi a Napoli per diventare allievo e poi emule del Domenichino, venne per visitare una zia morente sul Lago Maggiore.
Quivi ne raccolse le ultime volontà che consistevano, fra l’altro, di tenersi col piccolo patrimonio anche una sua figlia adottiva, orfanella raccolta a Ranco dove l’avevano abbandonata, partendo i genitori per l’America in traccia di fortuna, e dei quali non s’ebbe poi più notizia. Dorilla, come si chiamava la piccina, aveva allora l6 anni e l’espressione ingenua e carezzevole del suo volto, unito a una bellezza di forme non comune, cattivarono l’animo dell’artista che se la portò seco, facendosene una modella e una compagna affezionata.
Alla morte dei Sassoferrato, avvenuta in Roma l’8 agosto 1685, la Dorilla, unica erede sua, spedì in dono al Municipio di Angera il quadro della Vergine Addolorata che non era che il suo ritratto, con una discreta somma, perché fosse fabbricata la Chiesa della Madonna rimasta sempre incompiuta, e dove peraltro fu posto in un’apposita cappella il capolavoro regalato.
Ora, la notte della vigilia della prima domenica di luglio, un manipolo di giovanotti di Ranco, forse d’accordo col sagrestano che pare si fosse lasciato corrompere e che in ogni modo poi s’ebbe la peggio, penetrarono nella chiesa e, approfittando del buio pesto durante un temporale, trafugarono il quadro, sostituendovi una tela bianca con sopra scritto a grandi caratteri:
“ANGERESI, VI LASCIO PER VOLONTÀ Dl DIO
E VADO A RANCO CH’E PAESE MIO”.
La mattina di poi, quando incominciarono i fedeli ad affluire alla chiesa, immaginatevi la sorpresa generale scoprendo la sparizione miracolosa. In un momento la notizia fece il giro del paese e tutti, uomini e donne, fanciulli e vecchi, accorsero sul luogo per leggere l’iscrizione surriferita. Cessata la sorpresa, cominciarono i commenti e finalmente le proteste, i gridi, gli urli e tutto il pandemonio che sempre succede quando nessuna regola rattiene un assembramento tumultuoso.
In questo frattempo il sacrestano, vista la mala parata, dato di piglio la corda dell’unica campana, si mise a suonare come un indiavolato. Il sindaco Brovelli, lo speziale Maspero, il prevosto, il caffettiere Ausani e tutte le gradazioni dai ricchi ai poveri, nonché tutte le altre notabilità del paese, riuniti a consiglio per calmare la plebe, decisero e decretarono che si recherebbero in corpo ed anima a Ranco, da chiunque volesse, per verificare de visu e quindi decidere, obbligando nel caso la nascente parrocchia a restituire la Madonna rapita.
Quando gli Argonauti salparono alla conquista del vello d’oro, non tanto armati erano quanto gli Angeresi per questa intrapresa. Ai paesani chi colla forca, chi colla picca, s’aggiunsero i foresti con grossi bastoni o mazze ferrate allora in voga; le donne e i ragazzi formavano la retroguardia della nuova legione, capitanata dalle autorità del paese e circondata dai più prodi e audaci campioni. Arrivarono così, parte cantando, parte vociando ai primi abituri di Ranco, ma qui silenzio assoluto. Avanzarono nell’unica contrada che attraversa il paese, bussarono a più porte, ma per tutto era chiuso e barrato e non si udiva anima viva.
Tale non era l’accoglienza che s’aspettavano gli angeresi dei quali i più ardimentosi erano disposti alla zuffa ed i timidi a scansarsi prudentemente dal pericolo al momento della bisogna; così che non sapevano cosa pensare e proseguivano piuttosto silenziosi verso la chiesuola che vedevasi da lungi a porte spalancare.
Giunti colà, sul sagrato fecero una breve sosta, giacché il sindaco Brovelli, salito sui gradini della chiesa e rivoltosi al popolo, sfoggiando la sciarpa gialla e nera degli Inperiali e Reali Stati di cui era funzionario zelante, fece una breve arringa per invitare alla calma ed al rispetto della casa di Dio.
Dopo ciò, accompagnato dal prevosto, dallo speziale ecc. penetrarono nella chiesa; qui nuova delusione. Non vi era anima viva e, sull’unico modesto altare, dietro a quattro candelabri, spiccava, al posto destinato a un quadro, un’altra tela bianca con questa scritta:
“RISPETTATE O ANGERESI IL VOLERE DI DIO
LASCIATEMI A RANCO CH’È IL PAESE MIO”. .
ln quel tempo, in cui la superstizione andava facilmente congiunta all’ignoranza, facile cosa era lo sviare il volgo dalla verità colla parvenza del soprannaturale. infatti, bastò che il prevosto, alzando le braccia e stendendo le mani al cielo, esclamasse: “Fiat voluntas tua”, perché tutti, uomini e donne che stavano pigiati nella chiesuola, si buttassero ginocchioni, cominciando a recitare le preci.
Ed ecco, mentre tutti pregavano fervorosamente, calare poco a poco la bianca tela e scoprirsi il quadro della Vergine Addolorata.
Allora fu un sol grido unanime: miracolo! miracolo!...
fonte: Libro di Ranco, Cività e Storia del Lago Maggiore
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