Racconti Ranchesi
Proverbi  dialetto Ranchese

Racconti Ranchesi di Claudio Brovelli

PICCOLE STORIE DI UPONNE: IL PRIMO SCHIAFFO NON SI SCORDA MAI !
Gino, detto ul Teciet per via di un ciuffo ribelle che gli adombrava gli occhi, da una  settimana era tornato in licenza dall’Albania. Da oltre un anno non vedeva i suoi due più cari amici, l’inseparabile Richin e l’Attilio Barbé. Gino sarebbe ripartito il
pomeriggio successivo dalla stazione di Sesto, dove Richin lo avrebbe accompagnato  portandolo sulla canna della bicicletta. Per questo, in quella calda serata dell’estate del 1941, si erano dati appuntamento all’osteria, quella sulla provinciale gestita dal
Mario e dalla ‘Sunta, per un’ultima bevuta. Così, chiacchierando seduti a un tavolino in disparte, avevano già finito anche la seconda mezza bottiglia di brachetto. Su altri tavoli avventori più anziani stavano giocando a carte, forse a scopa o a tresette, e il
loro vociare copriva ogni altro rumore. La guerra sembrava ben lontana e molti, ma non tutti, ritenevano che non sarebbe durata tanto. I tre giovani amici comunque parlavano di tutt’altro e in particolare delle loro aspirazioni, dei loro sogni. Trovare un lavoro dignitoso, una donna con cui farsi una famiglia, crescere dei figli e vivere serenamente. A poco a poco il vociare dei giocatori si attenuò e a un certo momento si resero conto che, oltre a loro tre, nell’osteria erano rimaste solo un paio di persone.
Adriana, la figlia diciasettenne dei gestori, stava già pulendo gli altri tavoli, segno che l’ora della chiusura era arrivata. Attilio disse che era l’ora di andarsene, ma ul Teciet volle offrire un giro di sassolino, un liquore molto in voga a quei tempi. Gli altri accettarono, non foss’altro per farlo contento. “Però al bevum al banc, se non che la pora tusa lì la va più in lecc” disse il Richin. E tutti e tre, con un gomito sul bancone,  alzarono il bicchiere per l’ultimo allegro brindisi della serata. Mentre i due amici si avviavano all’uscita, Gino si fermò per pagare i tra bicchierini di liquore. Non chiedetemi perché, ma mentre Adriana prendeva il resto dal cassetto, lui se ne uscì con una improvvida battuta: “mì ma ciami Bruel e ma pias sunà ul campanel!” e così dicendo allungò l’indice della mano destra verso il seno della ragazza, mirando al capezzolo. Improvviso e rapido, il suono dello schiaffo, rimbalzando sui muri, echeggiò secco nel locale. Ul Teciet lo incassò senza scomporsi e si limitò ad accarezzarsi la guancia. La ragazza, pallida come un lenzuolo, non riuscì a dire una parola. Lui invece quasi si complimentò: “uela, che sgiafa…adiritura con la man manzina…”. Appena rimasta sola, Adriana corse a raccontare tutto a sua mamma, che si fece spiegare a chi avesse dato la sberla. “Chel lì al restaria ul fioeu de la Maria, la masera dal Camarin. – commentò la ‘Sunta - Duman matina, quand ti ve su a ciapà
ul lacc, digal a la so mama e domandig almen scusa”.
E Adriana così fece. “Tusa, ti fai ben! Na meritava un para da sgiafun! – esclamò la Maria – Al me regiù gha disi nagott, ma sta tranquila che ul Gino, quand al leva su, ia sint anca da mì!”.
La storia si sarebbe potuta concludere così, ma invece ebbe un seguito, per fortuna meno manesco. Gino e Adriana si sposarono nel 1948 e il 25 aprile di due anni dopo nacque il loro unico figlio, che altro non è che il sottoscritto.


Nota a margine. Il sassolino è un liquore di 40° ottenuto dall’anice stellato. Viene prodotto anche
oggi, ma viene usato soprattutto in pasticceria.


PICCOLE STORIE DI UPONNE: QUELLA NOTTE DEL 1944

Mio nonno Mario era fermamente convinto che Gesù fosse socialista. Il suo primo miracolo, quello compiuto alle nozze di Cana, per lui era l’esplicita conferma. Infatti, a suo avviso, uno che per far bere tutti tramuta l’acqua in vino che altro può essere?
Così Mario, oste in Uponne e di idee socialiste, nel suo piccolo cercava di seguirne le orme. Non era certo in grado di ripetere il miracolo, ma quando il vino scarseggiava vi aggiungeva un po’ di acqua, naturalmente solo per evitare che qualcuno rimanesse
a bocca asciutta. In realtà di questo parziale “miracolo” non vi è mai stata una prova probante, ma più di un abituale avventore sembrava esserne certo (le solite insinuazioni delle malelingue? Mah?). Sta di fatto che quella notte di fine luglio o inizio agosto del ’44, Mario era appunto in cantina, lontano da occhi indiscreti, a imbottigliare il vino. Mia nonna, ‘Sunta, invece stava allattando il figlio nato da poco e nel frattempo tentava di far addormentare quello nato l’anno precedente. Eh sì, ben diciassette anni dopo la nascita della figlia Adriana, nel giro di dodici mesi aveva messo al mondo due maschietti, prima Alfiero, poi Dario! Colpa del coprifuoco che mandava tutti a letto presto, così almeno asseriva lei. Sarà, ma in ogni caso la nascita dei due fratellini obbligò Adriana a sobbarcarsi una ancor più lunga serie di incombenze. Fra queste anche la gestione delle tessere annonarie, compito che, non avendo abbastanza tempo durante il giorno, svolgeva prima di andare a dormire. Così anche quella notte dell’estate ’44, lavati i piatti e sistemata la cucina, si mise all’opera. Nonostante facesse caldo e l’umidità infradiciasse gli abiti, chiuse le persiane, spense la lampadina e oscurò le finestre con i teli neri, in modo che la pur fioca luce della lampada a petrolio non filtrasse all’esterno. Tutte queste precauzioni erano dovute a quanto era accaduto la settimana precedente. I tre uomini della ronda avevano intravisto una tenue luminosità uscire dalla finestra. Avevano bussato, erano entrati e per evitare rogne Mario, obtorto collo, aveva dovuto aprire una bottiglia di quelle buone (e detto fra di noi, mio nonno non gradiva offrire il vino, ancor meno alle camicie nere). Ma torniamo alla notte in questione. Erano circa le ventitré e Adriana aveva quasi terminato il suo lavoro, quando qualcuno bussò alla finestra.
Spaventata spense la lampada e tese ancor più le orecchie. Dai bisbigli e dall’ansimare dovevano essere almeno in tre o quattro. Sentì bussare di nuovo e poi una voce sconosciuta. “Non abbiate paura, vogliamo solo acqua”. Con una certa dose di incoscienza, mia madre alla fine socchiuse la finestra e, spiando dalla persiana, intravide una decina di gambe. “Acqua, solo acqua… abbiam corso sino a qui da Taino e abbiamo una sete boia… A Ranco ci aspetta una barca per farci attraversare il lago… Andiamo in montagna”. Finalmente Adriana capì che erano partigiani. “Ve la passo subito, ma non state lì a berla, che se passa la ronda… Andate dietro la posteria, dove c’è il cesso”. Ad aspettare l’acqua rimase solo quello che dalla voce doveva essere il più anziano. Adriana con le mani tremanti riempì due bottiglioni, aprì mezza persiana e glieli passò. Poteva sentire l’acqua che gorgogliava nelle loro gole e, anche se tutto durò pochi minuti, sembrò che ci mettessero una eternità. Poi finalmente l’uomo riportò i bottiglioni vuoti. “Grazie, signora”. “Aspetti un attimo – disse Adriana e da un cassetto prese la prima cosa che al buio le venne tra le mani: una tavoletta di cioccolato, l’ultima del paio contrabbandate dalla Svizzera. – Tenete…e non state vicino alla strada…” L’uomo forse sorrise. “Stia tranquilla, sappiamo da dove passare. Grazie di nuovo! Ora chiuda tutto. Addio”. Adriana quella notte faticò a prender sonno: l’agitazione si attenuò quando ormai albeggiava.
A ogni buon conto, da allora ogni sera mise due bottiglioni d’acqua sotto la finestra. 
Un paio di volte, alla mattina, li trovò vuoti.
Mia mamma, senza mai cambiare una virgola, mi ha raccontato spesso quella vicenda. La prima volta era il giorno del mio nono compleanno. Uscendo da messa avevo visto sfilare un corteo con tanto di banda in testa, così a pranzo, dopo aver spento le candeline sulla torta, chiesi il perché di quei festeggiamenti. Mia madre mi spiegò che si celebrava la Liberazione e il conseguente avvento della democrazia.
Che io sia nato proprio il 25 Aprile è senz’altro un caso, ma a volte ripensando alla mia storia personale, ho la strana impressione che non lo sia del tutto.


RICORDI DI UPONNE

Ul paes dal me pà eran dumà quatar cà

do da chi, do da là, cun la vaca nal prà

e dentar al stabiel sa ingrasava ul purscel

e par mazal, a dicembar, sa ciamava ul Bruel

La vita l’era inscì grama da fa pagura:

sudur e fadiga dai cinch ur a la basura,

ma par divertis anca dumà un cicinin

eran a sé quatar bal e mez litar da vin.

Sa mangiava dumà chel che dava la tera

e in verità sa pativa la fam anca finì la guera,

ma a utubar finalment gheran i mundei

e l’era propi festa par i grand e i fiourei

Ul buter l’era giald e al saveva de bun,

ul vin l’era brusc e negar tam me ul carbun

e par mi, tut pel e oss tam me un gatin,

par inciuchim l’era sé un mez bicierin

Alura ghera sempar qualcos da fa

ogni stagion la gaveva ul so laurà:

taià ul fén, i legn, sgranà ul margun

e tuti i dì mandà indrè ul magon.

Sopratut quand rivava la cartolina

dal fradel magior in Argentina

partì disperà e con la pia illusium

da fas in Merica una bela posiziun.

Ma a la fin la Merica un bel dì,

quasi de culp se lem truava chi

dentar al cinema e a la televisiun,

dua i Siù eran tratà pegg di terun.

E alura firma la cambial e alè:

pel su stomich par fa quatar dané,

quatar danè par cumprà la sescent

inscì da fa invidia a tuti i parent.

Ma mò naghot lè pù tam me prima:

anca il fradel lè mort in Argentina

e il lacc da vaca, anca se lè sterilizà,

se til bevat frecc te curat a cagà.

Parlem po’ mia dal por purscel:

mò lè magar che al par un mudel,

e nal pulè tut al pù te trovat tre galin

da sicur vignù gras dumà a mangim.

Anca i cristian paran propri cambià

voran savegan pù da fa certi laurà,

i an lasà indrè al negar e al maruchin

che al ta neta ul vedar del finestrin.

Inscì, anca se mangium carne tuti i dì,

ma par che sem diventà un po’ rembambì

che gnanca i fiou sem bum pù da tira sù:

a tredas an ta mandan già a da via al cù!

Ah, l’era propri bel ul paes del me pà!

Ma mo al post di prà ghe una fira da cà

e anca la giughera di bocc la ghe pù:

par fala sparì ghan metù ne vun ne dù!

In cumpens dua piantavan ul margun

ghe ul marchet: roba bela a prezi bun!

Inscì sa cumpra tuscos senza contant

e alla fin dal mes sa resta in mudant!

Note

Mio padre (un “Bruel” del Camerin) macellava davvero i maiali dei contadini.

Non so scrivere in dialetto: ho teso a riportarlo come si pronuncia, ma ho avuto molti dubbi. Fra l’altro i dialetti cambiano anche a pochi chilometri. Ad esempio da noi il latte si traduce “lat” ma se non ricordo male mia nonna diceva “lac”. Quindi se c’è qualche persona più esperta mi segnali le correzioni da apportare.


PICCOLE STORIE DI UPONNE: L’INIZIAZIONE.

In quell’anno, il 1956, il 1° Novembre era un giovedì. Quando uscimmo di casa era ancora buio e le nuvole spesse e scure preoccuparono mia mamma: “Ma sa Gino che incoeu ciapum una lavada”. La strada era deserta e durante il tragitto dalla nostra
abitazione, in via Palestro, alla stazione di Busto, che era dalla parte opposta della città, incontrammo pochissime persone. Dopo appena un centinaio di metri, in piazza
Manzoni, mio papà per timore di perdere il treno e per non sentirmi frignare, mi caricò sulle spalle. Del resto io allora ero uno scricciolo: il più piccolo e il più magro della mia classe. Il treno non lo perdemmo, ma del viaggio non ricordo nulla. Il dondolio del vagone mi addormentò appena lasciata la stazione. Mi risvegliai ad Arona, completamente avvolta da una nebbia grassa che inumidiva gli abiti e non consentiva di vedere a un palmo dal naso. Era talmente fitta che i battelli non erano in servizio, ma per fortuna all’imbarcadero c’erano un paio di barcaioli e uno di loro, il più anziano, accettò di portarci sulla sponda lombarda. La barca attraversò il lago seguendo una traccia invisibile e approdò senza problemi davanti al santuario dedicato alla “Madonna della riva”. Da lì risalimmo in via Greppi, dove abitavano zio Luigi, uomo dallo sguardo austero e di pochissime parole, e zia Vittoria che, al contrario, amava dilungarsi in racconti di ogni tipo. Lo zio prestò la sua bicicletta a mio padre, mentre mia madre inforcò quella da donna prestatale dal Lepin, proprietario della salumeria posta nella medesima via. La prima tappa fu la casa di zia Bertina e zio Gill, all’incrocio tra via Solferino e via Madonnina. La zia, con quel suo volto inconfondibile, tipico di Bruei dal Camarin, seppur accogliente, evidentemente non amava le smancerie, tanto che non ricordo mi abbia mai baciato, e il suo sguardo mi è sempre apparso serio, quasi severo. Zio Gill invece mi sembrava un uomo d’altri tempi. Aveva l’abitudine di arrotolarsi la sigaretta, ma purtroppo gli tremavano un poco le mani, cosicché molto tabacco cadeva sul tavolo. In pratica a volte fumava la cartina o poco più. Due chiacchiere qui e quattro là, al Camarin giungemmo poco prima di mezzogiorno, quando la brezza del lago era finalmente riuscita a diradare la nebbia. Scambiati i saluti con zio Gioll e zia Rusina, i genitori di Piero, Gemma e Stefania, ci mettemmo a tavola. Non ricordo cosa avesse cucinato mia nonna, ma da bambino inappetente quale ero allora, io mangiai poco o nulla. Nonna Maria allora, appena i miei genitori si avviarono verso il cimitero, tagliò una fetta di pane, vi spalmò il burro fatto in casa e lo coprì con due cucchiai di zucchero che mia mamma aveva portato insieme a un pacchetto di caffè. “Mangia fiurel, che ti sé dumà pel e oss” disse prendendomi sulle ginocchia. La feci felice perché quella fetta imburrata la gustai davvero e la divorai in un batter d’occhio. Ma il bello doveva ancora venire.

Infatti, mentre lei sparecchiava, nonno Felice mi portò in cantina e dalla botte spillò un goccio di mosto, apena asè par spurcà al cù dala tazina, per farmelo assaggiare.
Trovai il sapore dolce e talmente gradevole che gli chiesi un secondo assaggio. 
Questa volta ne spillò almeno due dita che bevvi tutto d’un fiato. 

Quando tornammo in casa, nonna Maria, dal colore delle mie labbra, intuì subito cosa mi aveva fatto bere il nonno e lo rimproverò. “Ma regiù, ghi mia da cò? Pora stela, l’è trop piscinin par bev ul vin!”. “Ma cusa disì masera? l’era dumà un gutin! Vidì no cuma l’è alegar: tut’al più al rid fin a stasira e sta nocc al dorma me un angiulin!”. E andò proprio così: risi sino a quando risalimmo sul treno ad Arona, poi mi addormentai e mio papà dovette di nuovo attraversare Busto portandomi in braccio. D’allora, le poche volte che in gioventù ho ecceduto nel bere, non ho mai avuto la sbornia triste e malinconica, anzi è sempre stata allegra e mi son sempre addormentato col sorriso sulle labbra. Mi piace pensare che questo dipenda da quella sorta di iniziazione a cui mi sottopose nonno Felice, l’ultim regiù di Bruei dal Camarin!



PAGINA IN CONTINUO AGGIORNAMENTO - un ringraziamento speciale a  Claudio Brovelli

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